Come sono finita a fare il bagno in un sentō, a mangiare in un izakaya e a bere fiumi di sakè a Kyōto



L'idea di spostarmi in un altro alloggio non mi sembrava più un'idea così brillante, in fin dei conti, dopo un'ora di bus. Le mie due notti a Kyōto mi permettevano di girare il minimo indispensabile in questa città strabiliante e su quel bus urbano stavo perdendo fin troppo tempo nello spostamento. La prima notte avevo trovato da dormire in un ostello moderno, abbastanza economico e in una posizione comodissima. Potevo rimanere tranquillamente lì. Ma giorni prima, girovagando nei meandri di internet, avevo trovato l'indirizzo di questa guesthouse particolarissima e, apparentemente, dal fascino irresistibile in un'abitazione tradizionale, decisamente fuori dal centro. Così quel tardo pomeriggio, recuperato Ulisse (il mio zaino, ndr) mi incamminai alla volta di questa nuova sistemazione. La sequela infinita di severe ramanzine rivolte a me medesima per aver avuto quella pessima idea che mi stava solo incasinando la giornata si interruppe nell'esatto istante in cui mi ritrovai di fronte all'ingresso della guesthouse. 

È stato amore a prima vista.

Una casa a due piani, in legno scuro. Al piano terra un izakaya, un locale tipico giapponese dove poter bere e mangiare a prezzi ragionevoli pietanze semplici, ma gustose, in un ambiente casalingo, semplice e con quella discreta eleganza classicamente nipponica: una cucina nel centro della stanza; ripiani strabordanti di bottiglie dai nomi e contenuti misteriosi ma indubbiamente dal tasso alcolico superiore ai 15°; un bancone in legno e degli sgabelli alti; un tatami con dei tavolini bassi, a cui mangiare da seduti. 


Al piano superiore alcune stanzette singole dai letti soffici e le trapunte calde; le pareti in carta di riso per dividere gli ambienti; il pavimento lucido; un salottino accogliente con una cucinetta per gli ospiti. 

Il proprietario, Aii, un bell'uomo i cui tratti cesellati gli conferivano un'età indecifrabile (poteva avere 30 anni come 50), mi consigliò una visita al sentō del quartiere, proprio dall'altra parte della strada.

I sentō sono alcuni dei luoghi più adorabilmente tradizionali del Giappone, sopravvissuti alla modernità, alla fretta e ai cambiamenti. Sono tecnicamente bagni pubblici, con docce, piccole piscine di acqua bollente o gelida, a volte saune. Si differenziano dai più famosi onsen perché in genere sono al chiuso, in città e non dispongono di acqua termale. I sentō sono un'istituzione in un paese dove, fino a non troppo tempo fa, gli abitanti non possedevano la doccia in casa e scaldare gli ambienti casalinghi nei rigidi inverni non era cosa da poco. Ogni quartiere, quindi, aveva il suo sentō dove regolarmente uomini e donne, rigorosamente separati e completamente svestiti, con ritualità e lentezza, potevano lavarsi, scaldarsi, socializzare e rilassarsi. In Giappone fare il bagno non è un'azione legata meramente all'aspetto igienico: attraverso l'acqua, infatti, il corpo e lo spirito vengono purificati, alleggeriti dallo stress quotidiano e il semplice gesto del lavarsi assume una connotazione profondamente rituale e spirituale.

Come non cedere alla tentazione di un'esperienza simile?


Per il prezzo irrisorio di un caffè ho trascorso due ore di beatitudine completamente fuori programma. Dalla mia postazione un po' appartata ho potuto ammirare questo rito del bagno antico quanto il tempo stesso, in cui le donne (giovani, madri con figli piccoli, anziane), con gesti lenti, misurati, senza fretta, si lavano i capelli sedute su bassi sgabellini, si strofinano la pelle con guanti ruvidi, si insaponano a lungo in un tripudio di schiuma e bolle di sapone. Chiacchierano tra loro a bassa voce, scherzano, il rumore dell'acqua che scorre a coprire quasi completamente ogni bisbiglio. Immersa fino al mento nell'acqua bollente di una piscinotta in legno, in un cortiletto all'aperto circondato da alberi in fiore e accanto a uno stagno pieno di pesci rossi, ho aspettato che scendesse la sera, con la mente annebbiata dal vapore e da una sensazione di rilassata completezza. All'apparire della prima stella nel cielo, sono uscita nell'aria fresca di inizio aprile, mi sono asciugata e me ne sono tornata al mio alloggio per la notte, le gambe e i pensieri resi molli dall'acqua calda e dalla stanchezza. Non pensavo che la giornata potesse ancora avere in serbo per me altre sorprese, eppure nel giro di dieci minuti mi sono ritrovata seduta su un alto sgabello dell'izakaya, i capelli ancora umidi e una birra Sapporo di fronte. Tra un boccone di ramen e una cucchiaiata di tofu fresco con erba cipollina, con una colonna sonora allegra e i pentoloni di zuppa di miso che borbottavano in sottofondo, la serata è andata avanti tra chiacchiere leggere dal sapore multietnico (solo in quella stanza danzavano parole in italiano, inglese, hindi, spagnolo, giapponese e coreano), declinate presto in sonore risate al terzo giro di un celestiale - ma letale - sakè alle prugne fatto in casa. Fino a tarda, tardissima notte.


Finalmente, dopo tanto tempo dalla mia partenza, è arrivata anche la mia prima, clamorosa sbronza, indubbiamente agevolata da sei mesi di astemìa, giornate intense e da un'inaspettata, ottima compagnia.

Fortuna che il mio lettino era solo al piano di sopra. Non è stato semplice arrampicarsi quasi in quadrupedia fino in cima a quelle ripide scale. Una volta stramazzata nel mio giaciglio, ho solo più avuto il tempo per pensare "Arigato gozaimasu, Giappone!" (trad. "Grazie mille"), sorridere e perdere definitivamente i sensi. 

Almeno fino alla prima di una lunghissima serie di maledette pipì nel cuore della notte...

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